di Ginevra Amadio per Sapereambiente
L’ultimo lavoro del documentarista, “Songs of the Water Spirits”, dopo altri riconoscimenti in rassegne internazionali ha ricevuto pochi giorni fa il premio della giuria popolare nell’ambito dell’Archeofilm Fest di Perugia. L’acqua, i cambiamenti climatici e il confronto culturale con l’occidente tra i grandi temi toccati
Dagli abissi alle vette. Quello di Nicolò Bongiorno è un viaggio in verticale, un’esplorazione fatta di tappe che si susseguono, completandosi l’un l’altra. Songs of the Water Spirits (Italia, 2020, 100’) costituisce in tal senso un piccolo traguardo, il punto di coagulazione della sua ricerca. Prodotta da Allegria Films e presentata con successo in più rassegne internazionali, la pellicola si è appena aggiudicata il premio “Città di Perugia – Archeologia Viva” al termine della prima edizione di Perugia Archeofilm, kermesse del cinema storico, archeologico e ambientale tenutasi dal 21 al 23 giugno ai Giardini del Frontone e al Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria.
«Un riconoscimento del pubblico che rende conto di quel che è capace il regista, volto a tessere un lungo dialogo con la natura, «un inno sacrale al potere della Terra» .
Dall’osservatorio privilegiato del Ladakh, regione himalayana dell’India in profonda trasformazione, Bongiorno riflette sulla mutazione antropologica e sugli effetti di un capitalismo divorante, che soffoca ambiente, cultura, spirito del luogo. Tra gare di rally, turismo di massa e la montagna che si fa metafora vivente di un mondo in sgretolamento, l’autore realizza un’opera dentro le contraddizioni del tempo, facendosi etnografo di popoli e luoghi.
Il Ladakh come lente di ingrandimento dei cambiamenti climatici, del logorante agire dell’uomo sulla terra. Nicolò Bongiorno, la scelta di un luogo così “remoto” risponde all’urgenza di mostrare la pervasività di questi effetti, di mettere in luce – quasi per contrasto – quanto sta accadendo a livello globale?
Il Ladakh è considerato un laboratorio sociale, economico, culturale del pianeta. Si tratta di un luogo che ha fatto un balzo improvviso, recuperando in pochissimo tempo decenni di chiusura al turismo e alle sirene della globalizzazione. Se vi si pone una lente di ingrandimento è possibile percepire ciò che sta accadendo in tutto il mondo, e la sensazione è quella di toccare un luogo fragile che sta mutando pelle, a ritmi forse insostenibili. Le montagne, inoltre, sono formazioni delicatissime e dal loro stato, dalla loro tenuta, è possibile percepire i cambiamenti, gli effetti di un clima “impazzito” e dell’azione dell’uomo.
Qual è il ruolo della parola scritta nel tuo cinema? Il film si apre con la poesia di Goethe Gesang der Geister über den Wassern e si chiude con i versi di un poeta locale dedicati all’acqua. Alcuni dei momenti più belli mostrano i protagonisti che leggono notizie, ragionano sui mutamenti in atto. È come se la scrittura trattenesse più verità e ci mostrasse come il linguaggio – quello dell’arte in primo luogo – sia una porta d’accesso al nostro immaginario…
Fare cinema significa lavorare con l’arte, sondarne le possibilità espressive. Anche il documentario, il cui linguaggio può apparire freddo, scientifico, è in realtà una forma ‘aperta’, in cui far confluire realismo e riflessione, lavoro artistico e artigiano. Quello che cerco di fare è trasmettere emozioni di vita reale, vissuta, incrociando l’opera di indagine con l’esperienza umana. Per questo gli attori, di cui amo conoscere le storie, sono colti nella loro genuinità, nel ritmo spontaneo dei giorni. Non ci sono filtri, dunque la forza del racconto è tutta nelle parole, nelle immagini che producono i loro ricordi, le loro testimonianze.
La scelta degli interpreti – il linguista francese Nicolas Tournadre, l’ingegnere Sonam Wangchuck, l’attivista Deskit Angmo – sorta di guide alla scoperta del ‘nuovo’ Ladakh, sembra rispondere a una logica dell’alternanza, alla necessità di mostrare come Oriente e Occidente possano parlarsi, confrontarsi su questi temi. Come è avvenuta la selezione?
Sono tutte persone che ho incontrato nel corso dei viaggi. Mi piace ascoltare, raccogliere e tessere le loro storie: così è avvenuto il ‘casting’. Cercavo, ad esempio, un volto femminile, una ragazza che potesse mostrare come i giovani del luogo vedono e interpretano il loro futuro. Deskit Angmo mi è parsa perfetta. Tutti i protagonisti sono originari del Ladakh, tranne Tournadre che pure ho incontrato durante il percorso e che fornisce uno sguardo esterno utile a decodificare la realtà attraverso il prisma della lingua. Grazie a lui ho compreso aspetti, sfumature di quella cultura che non avrei saputo afferrare. Ogni idioma riflette un modo di vedere, di intendere il mondo.
Anche lo spettatore compie un processo di acclimatazione. Scopre che l’antica cultura ladakha identifica nel linguaggio un grido di allarme degli spiriti dell’acqua, che soffrono per la violenza dell’uomo sulla natura. Questa centralità dell’elemento acquatico sembra ricondurre l’indagine a un’idea di vita prenatale, a una purezza da custodire e/o recuperare.
È questo il punto focale del film: l’acqua come rigenerazione. Nel corso delle riprese ho scoperto questo poeta tibetano, Rang Sgrol (nome de plume di Don grub rGyal) considerato il simbolo della liberazione culturale che ha interessato l’area negli anni Sessanta. I suoi versi, Torrente di gioventù, risuonano nel finale restituendo il senso della forza, della potenza della natura. Si tratta di un’opera che è considerata il manifesto della poesia tibetana moderna, e al momento della stesura racchiudeva il senso di rottura con la tradizione. Ecco mi interessava anche questa idea di liberazione, la tumultuosità che si incarna nell’acqua.
In filigrana si scorge anche l’urgenza di decostruire la narrazione di questi luoghi, ancora affollata di stereotipi, vecchie fascinazioni orientalistiche…
È ancora merito di Nicolas Tournadre se anch’io ho potuto superare certe barriere, liberarmi dei condizionamenti che popolano il nostro immaginario. Quando si parla una lingua, la stessa di chi anima un luogo, si riesce a sfiorare la realtà più profonda. Sono entrato in contatto, attraverso il ‘ponte’ linguistico, con buddisti e musulmani, facendo tesoro delle rispettive visioni. Il Ladakh è solcato da differenze, ma imparando a conoscerne la popolazione si scorge un nucleo comune, un’idea quasi mistica dell’acqua e un senso di smarrimento riguardo al rapporto uomo-natura.
Il film è in tal senso un monito al futuro. L’occasione per interrogarsi sulla necessità di conciliare rispetto per la terra e occasioni di sviluppo. In questa prospettiva i giovani hanno mostrato una sensibilità particolare, come dimostra l’ esperienza del Fridays For Future. Proprio così. Fa impressione pensare che quanto si vede nel film potrà un giorno non esserci più. Certo, il progresso è qualcosa di irreversibile, pensiamo a quanto accaduto a partire dal Covid; poteva essere un’occasione per rallentare, invece c’è stata la corsa al recupero, un affanno a costruire, a produrre. Il turismo sta devastando il Ladakh, ma è una fonte di reddito importante. Come conciliare modernità e sviluppo sostenibile? Ho cercato di mostrare le soluzioni attorno a cui si sta ragionando, e l’impegno dei giovani è centrale anche qui, a mostrare – ancora una volta – una connessione con l’Occidente. Mi auguro, come tutti, che la loro voce riesca a imporsi, a scuotere ancor di più le coscienze.